Soccorre la storia da un ragionamento per assurdo                                                                                                                          di Giorgio Fogazzi

Si chiama Mario Romano Ricci, e scolpisce il legno. Egli sostiene che il “fare umano” non produce un fine ultimo, bensì lo strumento onde raggiungerlo. Così è per tutte le opere d’arte, che pure celebriamo come il sublime della produzione umana. Ricci sintetizza questo concetto con una grande matita ottagonale scolpita in un tronco d’albero.

Le facce, perfettamente lisce, sono dipinte, alternativamente, in rosso e nero. La parte superiore, accuratamente temperata, affiora una punta, tornita e dipinta in oro. Quel vertice lucente è la metafora portatrice delle storie, nelle quali è chiamata a dipanarsi la nostra vita, quando l’arte, cioè la virtù, la chiamerà al gesto. La stessa cosa si può dire del “fare” di Dio, il quale consegna all’uomo quella grandiosa matita che è il mondo, affinché l’uomo se ne serva onde raggiungere il fine ultimo, che è l’identità. La quale sta scritta e sonorizzata in quella cuspide aurea, come in un film. Quella grande penna è come uno smisurato punto interrogativo, dunque un’attesa, ma anche il plastico di un progetto, al quale l’uomo è chiamato a dare le strutture, con l’unica risposta possibile: la vita. Se il “fare” divino, ma pure quello umano, non sono preordinati alla immediata realizzazione di un fine, perché la loro funzione è strumentale, 1discende che il fine delle azioni umane non può essere quello di accaparrare i beni offerti dalla natura, e neppure quelli che l’uomo stesso produce, con l’opera di spostamento e modificazione di ciò che la Terra stessa già offre. Operare pensando in un modo diverso, significa scegliere di accumulare beni strumentali, senza tradurli mai nella materialità del fine. Stando le cose in questo modo, nessuna forma di accumulazione materiale e nessuna quantità basteranno allo scopo. Questa è la ragione dell’insoddisfazione invincibile di cui soffre l’uomo materialista, il quale non vede mai che si realizzi il fine ultimo, che pure avverte come scopo della vita.

Diventa così fondamentale ottenere che l’uomo si convinca che esiste un fine ultimo, e che esso, è il solo possibile, per tutti gli uomini.

Perché questa verità è il corpo dell’armonia, e realizza l’essenza dell’uomo, come sapienza universale.

Dante si è posto il problema nel suo “De Monarchia”.

“Poiché”, egli dice, “nelle azioni principio e causa di tutto è il fine ultimo, è necessario esaminare quale sia il fine della universale società umana”.

“Una volta individuato il fine comune, avremo trovato la ragione per cui l’umanità potrà conquistare un solo e comprensibile linguaggio, visto che quest’ultimo, altro non è se non il modo in cui l’azione persegue un fine.”

Onde servirsene per le proprie indagini, Dante compie queste riflessioni:

  1. c’è un determinato fine in vista del quale la natura è disposta in un certo modo, per cui anche la morfologia umana assume una certa 2conformazione, ed ogni organo è predisposto ad assumere una funzione tutta propria. Così c’è un fine onde la famiglia è strutturata in un certo modo, ed un borgo prende la sua struttura.
  2. Dio, servendosi della sua arte, che è la natura, pone in essere la natalità del genere umano.
  3. Dio e la natura non fanno nulla inutilmente, ma sempre in funzione di una operazione da compiere. E ciò, per qualsiasi cosa, tratta dell’esistenza.

Dante conclude il ragionamento affermando che “appare chiaro che l’ultimo grado della virtualità umana è la potenza e facoltà intellettiva, la quale, impiegata anche nelle indispensabili forme particolari, fa si che l’intelletto speculativo diventi pratico, e si manifesti nell’agire e nel produrre”.

È chiaro che la radice di tutto il ragionamento è costituita dalla presenza di un solo Ente Motore, capace di concepire un fine, di diversificarlo nelle sue
manifestazioni, e di perseguirlo in base alla logica che lo rende causa di ogni gesto, e realizzazione in ogni effetto.

Quel Primo e solo ente motore, anche per Dante, è Dio.

Scelgo di aiutare la fede e la buona volontà che animano la mia esplorazione, accettando per cosa vera la presunzione che lo spazio consiste in una distesa fluida e sterminata, onnisciente, ed eterna.

Dove esiste tutto, allo stato preconcettuale. Un tutto che si riassume nella parola Potere.

Dunque intelligenza, volontà, capacità compositiva, facoltà di produrre condizioni di vita Divina-umana, animale, vegetale.

Un mare, tanto per intenderci. Un mare che non è ancora plasticità e, per conseguenza, neppure materia, perché non è ancora affiorato un concetto.

Tutto ciò, vale a dire questa indeterminatezza, non può essere nominabile, perché non possiede le caratteristiche di individualità che deve avere il soggetto capace di indirizzare un’azione.

Quando però la volontà si manifesti con l’intendimento creativo e concepisca un progetto, si presentano delle possibilità linguistiche.

Al cospetto di un progetto grafico, dotato di forme che inducono il senso di una compiutezza, si può dire:

“Dio, cioè la volontà motrice dell’onnipotenza onnisciente, “dice di essere una cosa della tale fatta”.

Ed è sempre Lui, quando si vede il percorso di un fiume, un cumulo di sassi, una pianta, un coniglio, una forma antropomorfa.

Dunque, tutto ciò che appare è

“ciò che Dio dice di essere”.

Questa allocuzione, dal momento in cui occhieggia dal progetto come suono organizzato, non è ancora identità, perché manca un corpo definito, manca la materia, ma è già sostanza, perché si presenta come plasticità spaziale e, dunque tridimensionale.

Possiede infatti l’impronta del Padre: Dio, del figlio, il progetto, e dello Spirito, che è il modo in cui la costruzione viene narrata nelle figure componenti.

Lo Spirito, infatti, consiste nel tempo e nelle figurazioni dell’attività creativa di Dio, che si dedica al concepimento del progetto. È la storia, percepibile per sensazioni, come avviene in un film, che assume la sintesi del Verbo; che è la parola-nome-madre.

E lo Spirito è, appunto, anche Madre, perché lei nasce con la dote di portare in grembo la storia del figlio, il quale, venendo alla luce, realizzerà la madre stessa e lo spirito. Che suonano, nella Creazione, come voce di Dio e come Uomo che attende di nascere.

L’uomo è lo spirito del progetto, portatore, dunque, di tutta la sapienza universale. Egli è chiamato a confrontarsi con il Progetto stesso, ignaro di sé stesso, e, dunque, del suo potere, che, non per questo gli viene meno. Deve solo imparare ad utilizzarlo. Egli stupisce e, perciò, teme le cose che gli si fanno incontro, verso le quali prova attrazione o ripulsa, nelle misure e per i modi e tempi, in cui si riconosce nelle fasi del progetto, o ne è respinto. Poiché ancora non lo sente come cosa che gli appartenga comunque.

C’è modo, sia pure partendo dal preconcetto di un “mare” onnipotente e onnisciente, di concepire un “fine ultimo” plausibile, e pure di ammettere il fatto che tale fine ultimo appartenga a tutti gli uomini, per quanto siano chiamati a perseguirlo in modi e tempi diversi?

Certamente si, perché il cordone che unisce tutti gli uomini al medesimo ombelico, è il mare concepito quale unità in Dio, e l’elemento motore, senza il quale non esistono ne progetti ne realizzazioni è il fine. Che diventa la forza traente e la bussola, al medesimo tempo, di ogni gesto.

E qual è il fine della “volontà marina” concepita in Dio pittore, se non quello di “realizzare il dipinto”? Affinché costelli il mare di quelle isole lucenti che, riunite in arcipelago, compongono l’identità del Creatore e della sua creatura?

Il fine primo ed il traguardo ultimo, concepiti da Dio, sono le medesime cose che generano e mobilitano la vitalità intelligente dell’uomo, a seconda dei tempi e delle circostanze, delle capacità dispiegabili ma, sempre, in un rapporto che culla l’uomo davanti ad un progetto, ed al potere di realizzarlo.

La creazione nasce, dunque, come manifestazione dell’intelligenza, la quale, in quanto prodotto dell’onnipotenza e dell’onniscienza, è sintesi di volontà, operosità, capacità di conoscenza, disponibilità di mezzi e percezione del fine.

Che sono le componenti essenziali di un percorso in cui il vissuto, sul terreno dell’ignoranza, della paura, del dubbio, della straniazione dal sé, genera lo scontro tra la fissità di una progettualità astratta e l’imperium, che è il potere connaturato all’uomo. E che è pure il “Monarca” o “Impero”, concepito da Dante.

La progettualità con cui l’uomo si scontra è la “percezione fotografica” dei rapporti che nascono, nella Creazione.

Ciò che produce lo scontro, è la parola-madre-spirito.

Che è annuncio e strada dell’identità.

Si può dunque convenire con Dante Alighieri che “l’ultimo grado delle facoltà nell’uomo, cioè il suo fine, è l’essere capace di apprendere per mezzo dell’intelletto possibile, al fine di agire e di produrre”.

Dove “l’intelletto possibile” è ciò che “l’amore ha detto di essere”, cioè Dio, nella forma che Egli stesso ha progettato.

E dove l’amore è la sterminatezza di quel mare, quando mobilita la volontà di essere Dio, cioè un prodotto linguistico: un alfabeto.
“L’arte”, risuonano le parole del Pallido Ricordo il quale, questa volta, non sceglie di mostrarsi, ma invia una sua chiosa, “è il modo in cui l’amore è ciò che ha detto di essere: dunque è Dio, che assume i segni dell’identità, mediante il vissuto dell’uomo; che impiega la conoscenza di sé e la potenza del “Primo Motore” nei propri comportamenti”.

È davvero un volo iperbolico assumere quel “Mare” che abbiamo posto quale preconcetto, come immagine plausibile della verità?

Che poi, come si è detto, è l’unità, per la quale in Dio, che è presenza di ogni cosa, si concepisce il fine, e dimorano i mezzi per conquistarlo.

Tutta l’attività intellettiva e, dunque, produttiva di concetti e di opere, appartiene indissolubilmente alla totalità.

I confini dell’energia operante sono marcati dal colore, che sono gli effetti, non dalla “terra di nessuno”, che agisce da cerbero separatore e generatore di una
pluralità illusoria.

E il denominatore comune di ogni cosa, piacevole o meno che sia, passata, presente o futura, giusta o sbagliata che venga giudicata da una qualsiasi struttura morale, è la parola.

Senza la sua luce, imperatore dell’Universo resta il buio.

Si può dunque dire che l’Infinito si esprime nei termini della parola.

Ma l’Infinito è il modo con cui l’intelletto genera, mediante la plasticità del linguaggio, la verità per cui si distende la non separatezza del tutto.

Che è quel Mare, fatto di una sola sostanza, capace di tutto: la quale genera i mostri della paura finché la si idealizza in una oggettività convenzionale.

Tutto però ritorna alla pace del Mare acquietato, quando la parola (tutte le parole) torna ad essere ciò che è: la maniera in cui quel Mare “dice di essere”, perché ambisce a non restare solo e vuole essere partecipe di una marina navigante.

Che è l’uomo in Dio.

 

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