di Paolo Zanmatteo

Tradizionalmente sulla e dentro la Montagna si proietta la metafora del Sacro. È un tema che ha conosciuto l'espressione di artisti classici che hanno vissuto la generazione successiva a Piero della Francesca, da Jeronimus Bosch a Leonardo da Vinci; di autori neoclassici e romantici, da Canova a Friedrich. Tutti hanno esercitato una lettura della Natura animata.

Lo stesso concetto ritorna prepotentemente agli albori del cinema di montagna con Der Heilige Berg di Arnold Fank, film muto del 1926 che vide anche l'esordio di Luis Trenker a fianco del cineasta tirolese nello sforzo di uscire dalla dimensione puramente olografica delle Alpi ereditata dal secolo precedente. Si tratta ancora di una interpretazione ingenua, fortemente condizionata dai mezzi nell'era dell'avvento del cinema.
In realtà il riflesso del mondo naturale non si limita alla fabula moderna. Creazione dell’uomo artificiale e modifica delle capacità fisiche dell’uomo naturale sono due temi affrontati già nella mitologia, nell’alchimia, nella letteratura e recentemente anche nella filmografia in relazione ai desideri e alle speranze della specie umana. Ci ritroviamo davanti ai misteri della Nascita, a un desiderio nascosto del genere maschile: nella simbologia arcaica la donna procreava mentre l’uomo si limitava a guardare il mistero della procreazione rivestendo la donna di sacralità. La procreazione è un mistero, ma anche lo specchio psichico della dualità: come il rapporto padre-figlio, dominante-dominato, maestro-allievo. Vi si cela il desiderio di rubare alla donna questa sua capacità sacrale. Neanche la modernità, verticistica e fallocratica, può incidere su questa condizione.

Rispetto al mutamento il problema si complica. Nel ‘900 il mito era ancora l’uomo-macchina: oggi assistiamo al nuovo orizzonte del trans-umano e del post-umano. Ma sono vari i miti, da Sansone a Ercole, da Orlando il paladino agli stregoni del Nord, dall'alchimia alla biologia attuale, in cui sia l’uomo che la donna cercano più o meno inconsciamente una perfezione divina immaginata, forse sperata, che entrambi non hanno.

È, questo, un universo rappresentativo in cui si perpetua un moto circolare dei riferimenti. Ovvero parte dalla femmina sacra per tornarvi in forma inedita, più profonda e suggestiva. Vi si rievoca la figura classica di Pigmalione, lo scultore che rappresentò in effige la sua donna ideale, Galatea, alla quale gli dei diedero vita (Ovidio, Metamorfosi X, 243-297).

Ma se la cultura classica e classicista si rifugia nel figurativo come sinonimo di simulacro, la modernità rivela subito una dimensione estetica diversa. Mentre la ricerca scientifica si occupa di forme di vita artificiale, o almeno di intelligenza, di rigenerazione e sostituzione di parti del corpo umano, al fondo riemerge la dimensione femminile del riflesso umano sulla Creazione.

Dio è il femminino, figurativo sì ma ideale, candidato, purificato secondo i crismi che furono di Canova e Winkelmann ma anche dell'alchimia spirituale (l'albedo).
Il soggetto è la Donna come domina, la Dea Madre, tanto tellurica come la Terra (Gea), quanto iperuranica come Freya: nella sintesi delle due visioni diventa olimpica e distante come Hera, moglie e sorella maggiore di Zeus; e figlia di Rea, che a sua volta era sorella e moglie di Crono (il Tempo) e figlia di Gea.

È una deità imperturbabile, al contrario del nostro mondo pervaso di paure, che si confronta essenzialmente con il tema classico della rappresentazione antropometrica della Creazione. È lo stesso che si ritrova nelle figure antitotemiche delle origini, le cosiddette veneri preistoriche, la cui caratteristica spesso è quella di simulare una effigie isterica.

È la stessa che dopo la Prima Crociata, guidata da Richard de Clare al comando di un gruppo di cavalieri anglo-normanni nel 1169, riporta dall'Irlanda la figura di Sheela na Gig, colei che si genera ed è generatrice.

Della divinità irlandese, probabile erede di una deità femminile arcaica comune all'area circumpolare, esistono vari esempi, non solo in Irlanda, e non venne disdegnata ad ornamento di monumenti romanici tanto profani quanto sacri a dispetto dell'ostentazione palese della cavità genitale.

L'immagine, che si trova scolpita sui capitelli e a fianco delle porte delle cattedrali, in Italia settentrionale viene ricordata puta, a memoria della putea romana, ma anche della miniera, così chiamata nella vulgata del 12° secolo: ecco che il riferimento tellurico dell'origine della vita si risolve in un unico termine riferito al genere femminile. Ma non rappresenta la mutazione futuribile dalla categoria dell'umano al post-umano, ovvero la traduzione della concezione antica della Creazione in chiave estetica moderna. Ovvero quella per cui la tekné è femmina.

Raggiungere efficacemente la rappresentazione della sfera femminile ovviamente è complesso. Anche quando si recupera il carattere autentico della femminilità come espressione della forza vitalistica e generatrice, spesso non è protagonista ma semplice metafora, viene usata per alludere ad altro. Il risultato diventa quasi scontato. Le associazioni universali sono con l'acqua; il nudo è diffuso e manifesta il bisogno accessorio di antagonismo nei confronti di stereotipi fondati sul desiderio.

Però di genere femminile è anche la ricerca espressiva sulla forma dinamica. Applicando la prospettiva inversa su oggetti domestici e quotidiani, architetture organiche e forme, la figura femminile è la protagonista, il soggetto di riferimento nella definizione stessa dell'idea di tecnologia. Ovvero, da icona della generazione naturale si è trasformata in musa ispiratrice dell'evoluzione culturale.

Mario Romano Ricci con Phoemina riesce a sintetizzare tutto questo.

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